Dal sogno al tracollo: perché Neat Burger, il fast‑food vegano di Hamilton e DiCaprio, ha chiuso i battenti

Dal sogno al tracollo: perché Neat Burger, il fast‑food vegano di Hamilton e DiCaprio, ha chiuso i battenti

Il fast‑food vegano che voleva rivoluzionare il settore, sostenuto da due star internazionali come Lewis Hamilton e Leonardo Di Caprio, è arrivato al capolinea. Neat Burger, nata nel 2019 con la promessa di portare in piazza hamburger vegetali e un modello sostenibile, è stata messa in liquidazione a luglio 2025. In sei anni la catena è passata dalla rapida espansione ai conti in rosso e alle serrande abbassate, lasciando aperti solo due locali a Milano. Questo articolo ripercorre gli intenti del progetto e analizza le ragioni del suo fallimento, anche alla luce delle dinamiche del mercato vegano.

Gli intenti del progetto “Neat Burger”

Neat Burger nasce a Londra nel 2019 con l’ambizione di “rivoluzionare il modo di pensare al cibo privo di carne”. Hamilton, già passato a una dieta vegana, descriveva il format come un punto di svolta per portare la cucina plant‑based al grande pubblico. L’idea era offrire hamburger, panini con pollo fritto, pulled pork e milkshake che ricordassero, per aspetto e gusto, quelli delle grandi catene internazionali, ma utilizzando esclusivamente ingredienti vegetali.

L’etica ambientale era un pilastro del progetto. Packaging completamente plastic‑free e piantumazione di un albero per ogni panino venduto erano parte della proposta. Hamilton fu affiancato da soci come l’imprenditore italiano Tommaso Chiabra, già investitore di Beyond Meat, e Di Caprio entrò come “investitore strategico” nel 2022. Persino il portiere del Real Madrid, Thibaut Courtois, decise di supportare la start‑up. Grazie all’eco mediatica dei fondatori la catena aprì in poco tempo otto punti vendita a Londra, arrivando anche a New York, Dubai e due sedi a Milano.

L’obiettivo dichiarato era posizionarsi come l’alternativa vegana ai giganti del fast food, dimostrando che un’offerta etica e sostenibile potesse essere anche redditizia.

Perché Neat Burger è fallita (e cosa ci insegna)

Dietro l’entusiasmo iniziale si nascondevano però difficoltà strutturali. Già nel 2022 la catena incominciava a registrare perdite per 7,9 milioni di sterline (9,15 milioni di euro), più del doppio rispetto ai 3,7 milioni dell’anno precedente. Nel 2023 la situazione peggiora e il marchio inizia a chiudere metà dei ristoranti londinesi, a cui seguirono i locali di New York e Dubai. All’estate 2025 erano rimasti aperti soltanto i due punti vendita milanesi.

Diversi fattori hanno contribuito al declino. In primo luogo, la difficoltà di attrarre e fidelizzare clienti; poi i costi operativi in aumento, che hanno eroso rapidamente i margini. Le perdite hanno costretto a ridimensionare l’espansione e a licenziare personale; la chiusura dell’ultimo store britannico ad aprile 2025 ha fatto saltare circa 150 posti di lavoro.

In secondo luogo, l’offerta – pur ben curata – rimaneva più costosa rispetto ai fast food tradizionali. Secondo analisi di mercato, molti consumatori hanno iniziato a orientarsi verso opzioni più economiche complice l’inflazione, dimostrando che una visione etica non sempre si traduce in successo economico. Il pubblico vegano e flexitariano, seppur in crescita, resta una nicchia; su larga scala non ha compensato i costi elevati delle materie prime vegetali lavorate.

A peggiorare la reputazione, anche un episodio negativo: nel 2024 il locale di Camden a Londra riceve una valutazione igienico‑sanitaria di due stelle su cinque. Il problema viene risolto e all’ispezione successiva il punteggio torna al massimo, ma l’episodio confermò la percezione di una gestione non impeccabile e cadde in un momento di ridimensionamento.

Da osservatore esterno, il fallimento di Neat Burger appare anche il segno di un “raffreddamento” del boom vegano. Dopo l’ondata di investimenti su start‑up plant‑based, il mercato è entrato in una fase di consolidamento. Marchi come Beyond Meat hanno rivisto strategie e valutazioni, e catene come Neat Burger, costruite sull’onda dell’entusiasmo, non hanno retto alle pressioni finanziarie e alla concorrenza di locali tradizionali che hanno introdotto opzioni vegane. La rapidità dell’espansione e gli elevati costi di location nelle grandi città si sono scontrati con un pubblico che, pur apprezzando l’idea, non era disposto a sostenerla in modo continuativo.

Quando il dialogo si trasforma in scontro: le conseguenze della polarizzazione tra vegani e onnivori

Per le aziende e i progetti legati al plant‑based, questo è un fattore da non sottovalutare. Una comunicazione inclusiva, che punti sui benefici ambientali e sulla varietà dell’offerta senza demonizzare chi fa scelte diverse, tende a essere più efficace nel coinvolgere anche i curiosi e i flexitariani. In altre parole, ampliare il dialogo anziché innalzare muri può ridurre le reazioni di rifiuto e favorire una transizione alimentare più serena.

Neat Burger, insomma, è stata un’esperienza pionieristica che ha messo al centro la sostenibilità e la visione vegana, ma non ha trovato un equilibrio tra ambizione etica e sostenibilità economica. La sua parabola mostra che per rivoluzionare davvero il fast‑food servono sì investitori e visibilità, ma anche un modello di business resiliente, prezzi accessibili e un mercato maturo.

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