Quando la Guida Michelin introduce una novità, il mondo gastronomico tende a fermarsi per ascoltare. Succede raramente, e non per moda: accade perché le conseguenze, nel bene e nel male, sono reali. Lo abbiamo visto con le Stelle, che dal 1926 influenzano destini di ristoranti e intere economie locali, e lo abbiamo rivissuto nel 2024 con le Chiavi dedicate all’hôtellerie. Ora arriva il Grappolo Michelin, una distinzione che promette di ridisegnare la geografia del vino internazionale, dando un nuovo parametro di lettura a un settore che, negli ultimi anni, ha vissuto una proliferazione di guide, rating e opinioni che spesso disorientano più che orientare.
Il Grappolo, l’ultimo tassello di un ecosistema del gusto in continua evoluzione
L’idea è semplice quanto ambiziosa: attribuire 1, 2 o 3 Grappoli ai produttori che incarnano l’eccellenza enologica, accompagnando il tutto con una selezione di cantine “Consigliate”. Ma ciò che colpisce non è tanto la scala di valori in sé – già vista in altre forme – quanto la volontà di applicare una metodologia trasparente e uniforme, ripetibile in ogni parte del mondo. La Guida Michelin, forte di 125 anni di analisi gastronomica, prova così ad applicare al vino lo stesso metro di rigore che ha reso iconiche le sue valutazioni culinarie.
Il lancio non è immediato: le prime regioni valutate saranno Borgogna e Bordeaux, due territori che non hanno bisogno di presentazioni, ma che proprio per questo rappresentano un banco di prova rischioso. Perché giudicare ciò che è già stato sacralizzato dai secoli significa esporsi a critiche feroci. E Michelin lo sa bene: la scelta è strategica, perché se il sistema regge su questi due colossi, allora può reggere ovunque.
I cinque criteri: rigore tecnico, identità e quell’equilibrio che fa il vino grande
Si parla spesso di valutazioni “indipendenti”, “oggettive”, “rigorose”. Ma cosa significa davvero, soprattutto nel vino, dove l’emotività del degustatore è parte inevitabile dell’esperienza? La Guida prova a rispondere con cinque criteri dichiarati apertamente: qualità dell’agronomia, competenza tecnica, identità, equilibrio e costanza.
L’approccio agronomico è forse il più interessante. In un’epoca in cui la sostenibilità è più una necessità che una scelta, Michelin mette l’accento sulla salute del suolo, sull’equilibrio della vite, sulle pratiche colturali. È un segnale forte: non basta fare un grande vino, bisogna farlo in modo virtuoso. Qui intravedo uno degli spunti più promettenti dell’intero progetto.
La competenza tecnica valuta la precisione dei processi, la capacità di vinificare senza inciampi, di valorizzare il terroir senza coprirlo. È un criterio che intercetta una tendenza attuale: la fine della tolleranza verso i difetti spacciati per “naturalità”. Non si tratta di negare il vino artigianale – tutt’altro – ma di rimettere al centro la qualità del risultato, al di là delle filosofie.
C’è poi la questione dell’identità, concetto tanto poetico quanto difficile da misurare. Come si valuta il “senso del luogo”? Michelon promette ispettori esperti, ex sommelier, critici, professionisti abituati a leggere i vini oltre la superficie. A loro il compito di trasformare in giudizio ciò che spesso si percepisce più con la memoria che con il palato.
Infine arrivano equilibrio e costanza: i parametri più “classici”, che però non vanno sottovalutati. L’idea di assaggiare basandosi su più annate – e non solo in un colpo singolo – è un elemento che molte guide non possono permettersi. Valutare la resilienza qualitativa di una cantina nelle annate difficili è probabilmente il test più serio per capire chi sta davvero lavorando bene.
In sintesi, questi criteri aprono la strada a un approccio che vuole essere scientifico senza perdere l’umano, tecnico ma non asettico. Un equilibrio raro, se davvero verrà rispettato.
Perché il Grappolo potrebbe cambiare il mondo del vino (e perché potrebbe anche non farlo)
La domanda che molti operatori del settore si stanno ponendo è semplice: in un mondo già saturo di punteggi, guide, classifiche e influencer, serviva davvero un altro sistema di valutazione?
La risposta, come spesso accade nel vino, dipende dalla prospettiva.
Dal punto di vista delle cantine, i Grappoli rappresentano una nuova opportunità – e forse anche un nuovo timore. Essere insigniti di 3 Grappoli significherà entrare in una sorta di olimpo dell’affidabilità: produttori da cui, qualunque sia l’annata, ci si può aspettare un livello eccellente. I 2 Grappoli porranno l’accento su costanza e personalità territoriale, mentre il 1 Grappolo potrà diventare il sigillo ideale per quelle realtà che stanno crescendo rapidamente, che magari non hanno ancora l’ampiezza di gamma o la storicità di altre, ma che stanno dimostrando talento e visione.
Dal punto di vista dei consumatori, il Grappolo ha il merito di offrire una bussola semplice. Non tutti hanno tempo – o voglia – di orientarsi tra report tecnici, degustazioni verticali e punteggi decimali. Una scala da 1 a 3, con una categoria consigliata, potrebbe diventare uno strumento immediato, quasi pedagogico.
Cosa potrebbe non funzionare? Due aspetti meritano riflessione.
Primo: la centralità dell’assaggio umano. Sarebbe ingenuo ignorare che ogni giudizio, anche il più rigoroso, porta con sé l’esperienza, la sensibilità e il bagaglio culturale dell’ispettore. Michelin dovrà dimostrare non solo competenza, ma anche quella difficilissima virtù che è la coerenza globale.
Secondo: il rischio di omologazione. Una guida internazionale dovrebbe valorizzare la diversità, non spingere i produttori verso uno stile ritenuto “premiante”. Se i Grappoli premieranno la precisione a scapito della spontaneità, la tipicità rischierà di rimanere schiacciata. Ma se sapranno dare spazio a interpretazioni differenti dello stesso territorio, allora potranno davvero contribuire a un nuovo racconto del vino contemporaneo.
Nel 2026 sapremo di più, quando Borgogna e Bordeaux inaugureranno ufficialmente questa nuova stagione. Per ora possiamo solo osservare che Michelin ha lanciato un messaggio chiaro: il vino non è un mondo accessorio alla gastronomia, ma un suo pilastro culturale. E forse era davvero il momento che una guida storica lo riconoscesse con un simbolo dedicato.
