Il giallo della Rossa: la guida ristoranti Michelin e lo svarione sul Del Cambio di Torino
L’edizione 2014 della Guida ristoranti Michelin si tinge di giallo.”Ancora più incantevole dopo il restyling , questo tempio della gastronomia piemontese, non smette di far parlare di sè, ma- forse – sono i piatti che ancor meglio riescono a raccontare con quanta cura e passione il giovane chef si dedichi alla sua arte”. Peccato che il locale in questione, il ristorante Del Cambio di Torino, così amabilmente recensito dalla Guida Michelin, sia ancora chiuso per ristrutturazione ed il suo chef, Matteo Baronetto, è ancora impiegato, almeno fino al 15 dicembre, presso il Ristorante Cracco di Milano.
Cerchiamo ora di non saltare a conclusioni affrettate e drastiche, anche perchè, la notizia, ha già reso orfani centinaia di appassionati che alla Rossa hanno fatto giuramento di eterna fedeltà, ed ha buttato benzina sul fuoco della querelle, già in fiamme, tra chef e critici. Una querelle che ha assunto spesso le proporzioni di una guerra tra tiranni dall’io ipertrofico. Insomma, già che la critica gastronomica non se la passa bene, è essa stessa oggetto di aspra critica, accusata di parlare sempre degli stessi cuochi e di trascurarne altri, pur bravissimi, ci mancava pure il caso del come si mangia bene nel ristorante che non c’è!
Proprio a casa nostra, qualche giorno fa, alla festa di presentazione delle guide EDT, tenutasi a Torino, lo chef Davide Scabin aveva dichiarato polemicamente: “Il futuro della cucina italiana e degli chef è in mano alla critica. Gli chef senza la critica non sono nulla“. Per non parlare poi del sottobosco che si sviluppa all’ombra dei critici autorevoli, un’organizzazione orgogliosamente ignorante che recensisce ristoranti assegnando punteggi sulla base dell’andamento della giornata. Giornata storta uguale pessimo giudizio, portali gastronomici pensati come lettini da psicanalisti, spazi per cattiveria che avanza da distribuire alla cieca, cose che danneggiano fortemente l’immagine di ristoratori sempre più davanti ai pc a difendersi da commenti fraudolenti che davanti ai fornelli a far andare il soffritto in padella. Ma il dubbio ammala: vuoi vedere che non ci si può più neppure fidare degli ispettori Michelin?
Cerchiamo di scoprire chi sono e come vivono questi impiegati della critica gastronomica filo-francese intorno ai quali aleggia un mistero più fitto di quello dell’Ordine dei Cavalieri del Sacro Graal e come sia stato possibile cadere in un simile peccato che, purtroppo, con la gola ha avuto proprio poco a che fare. Nel 2004, Pascal Remy, esperto ispettore della Guida Michelin, scrisse un libro, “L’inspecteur se met à Table“, che gli valse, no, non un premio, mica siamo in Italia, piuttosto il licenziamento dall’azienda. Nel libro, praticamente introvabile, da index librorum prohibitorium, Remy racconta la solitudine delle giornate di un ispettore della Michelin, pranzare e cenare mai in compagnia, trascorrere la maggior parte del tempo in auto cercando di portare a termine il pesante incarico assegnato, una stipendiuccio da impiegato. Insomma, una vitaccia, troppo impegnativa e senza tregua. Remy, ci mise anche la ciliegina su questa torta, ed accusò la Michelin di mentire sulla reale composizione dell’organico, ma quale cinquantina di dipendenti – scrisse – sì e no che s’era in 5 a coprire tutto il territorio, e, dalle stelle alle stalle, dichiarò che alcuni chef erano intoccabili, a prescindere dal livello qualitativo reale. Apriti cielo, il libro divenne un caso giudiziario e la Michelin ebbe la meglio ma di fatto, due anni fa, il settimanale New Yorker, pubblicò un articolo di John Colapinto che intervistava un’ispettrice di New York. Protetta dall’anonimato, confermò tutti gli aspetti scoraggianti della sua professione, già lamentati da Remy, azienda in sottorganico, niente orari fissi, lunghe trasferte e quattro soldi di paga. Neppure adesso salteremo alle conclusioni affrettate e drastiche ma diciamocelo, la puzzetta di bruciato si comincia a sentire. I locali da visitare sono tanti, tantissimi, e tutte queste visite da fare si conciliano male con l’esiguo numero di ispettori, forse, dico forse, alcuni locali vengono recensiti limitandosi a controlli superficiali. Come dire? Si fa che si va sulla fiducia.
Certo, non osiamo neppure immaginare che gli ispettori Michelin, integerrimi custodi del palato, siano ricorsi ai peggiori metodi della critica gastronomica, degustazioni visive del tipo “dalla foto il piatto sembra eccellente”. Perdonerete una certa ironia, ma il caso ha un contorno così divertente che mi passa la voglia di un J’Accuse alla Zola per denunciare l’irregolarità commessa. Abituati come siamo al carattere nazionalistico dei cugini d’Oltralpe, alla loro spocchietta di presunta superiorità, una caduta di stile così pesante, quelle honte!, li rende un tantino più simpatici. Umani, maledettamente umani, e meno francesi. Speriamo solo che per non esser coerenti con le tradizioni, all’ispettore reo di aver recensito il ristorante che non c’è, non abbiano fatto saltare la testa.