Mi è capitato di recente di cenare in un ristorante stellato (di cui non farò chiaramente il nome) nel quale ho avuto un educato ma deciso contrasto relativamente ad una mia critica fatta sulla metà dei piatti assaggiati del menu degustazione. Il mio disappunto riguardava il fatto che nessuna delle portate provate mettesse minimamente in risalto la materia prima principale dichiarata. In particolare, una triglia completamente devastata da un fondo dolciastro (non posso entrare nei particolari altrimenti qualcuno potrebbe capire) e un risotto (cottura perfetta e riso straordinario) la cui materia prima principale, però, non perveniva al palato. Fino a quando lo chef non si è presentato al nostro tavolo, pensavo semplicemente ad una “serata no” della brigata. Ma quando finalmente l’executive si è fermato per i saluti ed ho avuto l’occasione di esprimere i miei dubbi su alcune portate, la sua risposta è stata: “A me, di far sentire la materia prima, non mi importa, a me interessa che l’esperienza della degustazione sia piacevole. Da me non troverai mai un filetto di ombrina o un trancio di baccalà. I prodotti che uso, non sono destinati ad essere per forza riconosciuti ma hanno il compito – invece – di essere funzionali al piatto finito. Tenga conto che, nonostante questo che le ho appena affermato, uso comunque prodotti di altissimo livello”. E qui è partita la discussione.
Onorare la materia prima significa esaltarla: il rispetto passa dalla corretta manipolazione
L’esperienza raccontata poco fa, non vuole essere una stroncatura al ristorante visitato ma solo uno spunto per una riflessione che è anche un’esortazione che faccio a tutti i miei amici cuochi. Mi rendo perfettamente conto che alcuni ingredienti possono svolgere una funzione più complessa rispetto al rilasciare il sapore tipico del prodotto, ma non quando questo è dichiarato nel menu come componente primario del piatto. Un risotto alle ostriche deve restituire in qualche modo il sapore di ostriche; una linguina ai ricci di mare… se non mi fai sentire i ricci non ti pago il piatto; uno sgombro con senape e portulaca necessita di una manipolazione equilibrata tale da permettermi di sentire la qualità dello sgombro senza che questo venga coperto completamente dagli altri ingredienti come la stessa senape. Una volta rispettata la materia prima, lo chef potrà lavorare affinché la sua ricetta diventi unica. Oggi, ad esempio, si seguono alcune tendenze legate all’aspetto percettivo finale del piatto. C’è chi lavora sulle acidità accentuate, sui toni amari e finanche sul “rancido” (come sta facendo Floriano Pellegrino, lo chef del ristorante Bros di Lecce), ma alla fine è necessario che venga sempre e comunque restituita dignità a ciascun ingrediente primario. Non farlo, permettetemelo, significa sbagliare l’approccio alla cucina.
Gli ingredienti di un piatto son come cavalli: bisogna saperli domare.
“Gli ingredienti di un piatto son come cavalli: bisogna saperli domare”. Lo ha detto un certo Gianfranco Vissani che di materie prime se ne intende come pochi. Ed ha ragione ad affermarlo. Domare un ingrediente non significa coprirlo o devastarlo a tal punto da cambiargli i connotati. La trasformazione di un ingrediente richiede grandissima sensibilità, per questo spesso – prima di mettere un piatto in menu – è necessario uno studio a monte e tante prove di assaggio. Antonino Cannavacciuolo una volta disse che “cucinare non significa solo leggere una ricetta. Cucinare è una questione di sensibilità, di rispetto degli ingredienti e dei tempi di preparazione”.
E se alla fine il piatto è buonissimo ma l’ingrediente principale non si sente, per me il piatto è sbagliato a metà.