Chiacchierata al settimo piano con Antonio Lebano

Chiacchierata al settimo piano con Antonio Lebano

Quando l’ho incontrato a Milano, sulle terrazze del Gallia, Antonio Lebano mi ha dato l’impressione di non avere l’età che il suo aspetto dimostrava. Era come parlare con un vecchio dai lineamenti (e dall’entusiasmo) di un ragazzo. Giungere sul tetto di Milano probabilmente gli ha portato in dote un supplemento di autocontrollo, di equilibrio, perché da lì sopra, oltre le nebbie, lontani dai tumulti della strada, è possibile godere di una vista privilegiata, innanzitutto sul proprio io interiore. In questo monotono periodo di quarantena ho avvertito la necessità di chiacchierare con personalità positive, con esempi vincenti di passione, coraggio e professionalità. Così ho pensato a lui, l’ho contattato e ne è uscita una intervista meravigliosa, un resoconto ambientato tra passato e futuro che ho voluto dividere in due episodi, netti e ben distinti, entrambi però con un solo protagonista: Antonio Lebano.

Ciao Chef, benvenuto sulle pagine di Oraviaggiando.

Ciao Mario e grazie a voi!

Riportando un famoso aforisma di Sant’Agostino nell’ambito enogastronomico, ti chiedo: la cucina è più ricordo del passato o immaginazione del futuro?

Entrambi! Oggi dobbiamo essere super orgogliosi di tutto quello che hanno fatto gli uomini del passato (dove per uomini del passato intendo proprio tutti, dai coltivatori delle civiltà più antiche fino ai grandi chef del passato recente). La ricerca è immersa nel ricordo del passato, che oggi dobbiamo trasformare e rendere contemporaneo, aprendo a nuove tecniche e nuovi macchinari in modo da migliorare i processi di produzione, quindi i risultati finali.

Che ricordo hai della cucina di casa? Quando chiudi gli occhi, dove ti portano gli odori e i sapori della tua infanzia? Riusciresti a creare un intero menù attingendo esclusivamente ai piatti provenienti dalla tua memoria?

Sicuramente i gusti della cucina di casa sono qualcosa che ti restano dentro per sempre. Ecco il mio ‘’menù della memoria’’: melanzane a funghetto di mamma, peperoncini verdi di fiume (i puparulli) al pomodoro di nonna Michela, gli spaghetti al pomodoro del piennolo, il “finto tiramisù”, sempre di mamma, preparato puntualmente nel giorno del mio compleanno, ogni anno. Dico “finto” perché si tratta di una sorta di torta gelato preparata con biscotti saiwa inzuppati nel caffè, ricotta e zucchero, tanto cacao e gocce di cioccolato.

Un dolce fatto di sogni. Sogni d’infanzia.

Ne ho riproposto una versione aggiornata al 2019, durante Festa a Vico dello scorso anno. Sai, è stato un omaggio alla mamma, un momento bellissimo. E’ come se attraverso il mio lavoro le avessi mostrato tutta l’ammirazione che nutro per lei. Nel mio caso la ricotta era riposta in un cannolo di meringa, crema di biscotti, gelato al caffè e fava di cacao grattugiata.

Veniamo a tuo fratello Vincenzo. Quando hai iniziato a lavorare con lui?

Molto presto. Ricordo che quando Vincenzo era ancora a scuola, tra il III e IV superiore, gestiva nel pomeriggio la cucina di un mini-pub. Io, pur essendo più piccolo di 4 anni, ero al suo fianco. Successivamente, divenne responsabile di cucina di una villa storica a San Giorgio a Cremano, e io lo raggiungevo nei fine settimana. Poi Vincenzo ha deciso di stravolgere tutto, dedicandosi anima e corpo all’alta gastronomia mentre io completavo gli studi.

Quindi le strade si sono divise. Tu, dopo la scuola, che hai fatto?

Gennaro Esposito mi ha mandato alla corte di Cannavacciuolo. Son rimasto lì fino a quando Vincenzo ha deciso di aprirsi una sua attività in Abruzzo, ad Alfedena. Al sangue non si comanda, quindi sono andato via da Villa Crespi per aiutarlo nei primi mesi, al termine dei quali ho trascorso un periodo da Iside e Romano alla Parolina di Trevinano. Poi, la chiamata di Chicco e Bobo Cerea, alla quale ho risposto con un gigantesco si.

Un’opportunità incredibile

Un’opportunità troppo grossa per farsela sfuggire. Ricordo che in due mesi abbiamo chiuso e ci siamo trasferiti a Milano. L’apertura di Terrazza Gallia a Milano propostaci da Chicco e Bobo Cerea è uno di quei doni del destino che credi di non meritare.

Raccontaci il vostro incontro con loro.

Ti parlo del mio primo incontro. Ero a Villa Crespi, si stava svolgendo la festa “Le stelle sul lago d’Orta’’, con tanti chef super stellati, anche se io volevo assolutamente conoscere Chicco Cerea. Cosi, a fine serata, quando stava andando via, lo rincorsi e gli chiesi la giacca… sai, un po’ come si fa con i grandi campioni di calcio, quando, a fine partita, gli si chiede la maglia. Chicco sorrise e me la regalò. Poi conobbi Bobo in un altro evento a Cannes, ci scambiammo i numeri e da allora nacque il rapporto che ancora oggi ci lega. Vincenzo invece ha avuto modo di conoscerli quando io ero al Da Vittorio, perché ci mandava i canditi che producevamo giù in Abruzzo.

Cosa vuol dire per voi rappresentare la Terrazza Gallia a Milano, al settimo piano di un hotel tanto prestigioso?

Sicuramente un’opportunità che pochi ragazzi e pochissimi cuochi possono avere! Siamo stati fortunati a guadagnarci la stima e la fiducia degli chef. Ti racconto la mia prima volta in questo spazio magnifico: quando nel giugno 2015 arrivai a Milano, mi portarono a fare il sopralluogo in Terrazza, rimasi senza fiato. Non riuscivo a descrivere la bellezza che mi circondava… e non riesco ancora a descrivere quell’emozione. Siamo orgogliosi di poter essere qui.

Un pensiero sulla città di Milano

Milano è una grandissima piazza, oltre ad essere il motore economico d’Italia. La concorrenza è tanta, ci sono cuochi e addetti ai lavori davvero competenti che ammiro tantissimo. La città ci lascia una energia tanto potente da ispirarci a dare il meglio tutti i giorni.

Per chiudere la prima parte della nostra chiacchierata ti chiedo come hai trascorso questa quarantena, e cosa pensi in generale del periodo storico che stiamo attraversando.

Un qualcosa di allucinante che comporterà tanti cambiamenti. Se non partono degli aiuti seri, da parte delle istituzioni competenti, credo che molti colleghi e proprietari potrebbero non riaprire più le loro attività. Il mio cuore è con loro nella speranza che tutto vada per il verso giusto.

Io… sto facendo tanto tanto pane, leggo libri di cucina e mi sto prendendo cura della mia bimba, nata da poco, Flavia!

Intervista ad Antonio Lebano, 2a parte

Un grande corridore della mia terra, Pietro Mennea, disse che lo sport ha bisogno di progettazione, innovazione, impegno costante. Credi che possa dirsi lo stesso per la ristorazione? Qual è l’idea dietro il vostro concept di cucina?

Progettazione, innovazione, impegno costante. Sono le basi del nostro credo. Oltre a Terrazza Gallia, Vincenzo gestisce le altre cucine dell’hotel con il mio appoggio – quando mi è possibile – e questo ci tiene duramente impegnati. Tutto deve filare liscio, tutto deve essere “di qualità”: dalle materie prime al rapporto con i fornitori, dalla selezione delle brigate di cucina al rapporto con i clienti…

Non deve essere facile gestire una cittadella in miniatura come il vostro Hotel.

Vedo l’hotel come una grande macchina. Tutti i pezzi devono girare nel modo giusto per far funzionare al meglio gli altri. Non è facile mantenere la concentrazione ogni santo giorno, ma è questa la vera sfida.

Per la progettazione, ci sono incontri costanti tra di noi ed i nostri sous chef Francesco Guarino, Luca Carollo, Sebastian Acosta, con il nostro capo F&B Tim Andreas, il nostro direttore di sala Stefano Carnelli, e tanti altri amici-collaboratori, persone insostituibili.

Quanto è faticoso vivere ogni giorno con il fine di migliorarsi?

Non è semplice ma data la nostra età e gli obbiettivi che ci siamo posti sarebbe triste non farlo. Sono una persona a cui piace sperimentare gusti e prodotti sempre nuovi, alzare sempre di più l’asticella.

Ho sentito tanto parlare di “zio Tonino”. Raccontaci di chi si tratta.

Zio Tonino è il nostro grande esempio di lavoro e sacrificio. E’ un ‘’suddito’’ della terra, un vero amante dei campi. È merito suo se siamo così legati a quello che è diventato un ingrediente fondamentale nei nostri menu: il pomodoro del piennolo. Lo coltiva personalmente alle pendici del Vesuvio, a San Vito, frazione di Ercolano.

Quali altri eroi del mondo della ristorazione sono la tua fonte d’ispirazione? Ti senti in dovere di ringraziare qualche maestro?

Tra i maestri, sicuramente Chicco, Bobo, Paolo Rota, Antonino, Iside e Romano. Gennaro perché mi ha permesso di entrare nel mondo dell’alta ristorazione.

I miei eroi: David Munoz, Angel Leon, Alain Ducasse su tutti.

“Terra mia, terra mia, comm’è bello a la penzà. Terra mia, terra mia, comm’è bello a la guardà”. Che emozioni e che valori ti legano alla tua terra d’origine?

Crescere a Napoli, ed in alcuni posti in particolare, ti permette di acquisire un modo di vedere le cose diverso, molto diverso, difficile da spiegare. Sai bene cosa intendo, anche tu sei del Sud.

Il calore della gente, il mare, il Vesuvio, probabilmente visti da fuori sono i “soliti luoghi comuni”, certo, ma c’è uno strano fenomeno che permette solo a “noi” di osservarli per davvero.

Un sortilegio, una sorta di benedetta maledizione.

Esattamente. Chi è nato in quei posti ha il privilegio di comprenderli, di catturare l’anima della loro bellezza. Non sono per come appaiono, non sono proprio alla portata di tutti, diciamo così. Totò in un film disse: “c’è chi può e chi non può… e io può” (per fortuna!)

Sono orgoglioso delle persone che rappresentano la Napoli del food: Domenico Candela, Lino Scarallo, Salvatore Bianco, Enzo Coccia, la famiglia Piccirillo dell’antica friggitoria Masardona (la migliore pizza fritta del mondo!) e tanti altri.

Muhammad Ali sosteneva che, dentro o fuori ring, non c’è niente di male a cadere, ciò che è sbagliato, invece, è il rimanere a terra. Che consiglio daresti a quei giovani ragazzi che in questo momento pensano di aver fallito?

Guarda, ti racconto questo episodio: dopo l’esame di qualifica del terzo anno, il professore mi mandò per la stagione estiva a Madonna di Campiglio, con Paolo Cappuccio (1 stella Michelin) allo Stube Hermitage.

A scuola me la cavavo, soprattutto in cucina, ed anche nella azienda di banchettistica in cui lavoravo il fine settimana non ero male. Eppure quell’esperienza (durata 15 giorni) mi segnò duramente, pensai di non voler più fare quel lavoro, insomma, tornai a casa.

Mio padre, senza perdere la sua nota caparbietà, riuscì a trovarmi subito un altro incarico, nel fantastico hotel Aeneas, in provincia di Gaeta. Li ho compreso una volta per tutte che questo lavoro andava preso di petto, seriamente, donando tutto di sé, testa, cuore, muscoli, sangue tutti i giorni.

Questo è ciò che mi sento di dire ai ragazzi che cominciano adesso o a quelli che, purtroppo, pensano di aver fallito: diffidate dalle ricette fighe, soffermatevi sui prodotti, sulle tecniche, tutte le tecniche, mi raccomando, da quelle di coltivazione a quelle che ti permettono di avere la migliore salsa, il miglior lievitato… Lo studio non è solo necessario, è fondamentale, e deve andare di pari passo con il lavoro, perché solo lavorando è possibile sbagliare, e solo sbagliando è possibile migliorarsi.

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