Politica agroalimentare, perché tornare all’agricoltura
In Italia, di agricoltura, si parla davvero poco. Si parla molto di cibo ma di agricoltura, no. Se ne parla. Forse a causa del fatto che la terra rimanda ad un’idea di povertà e ritardo che mal si accorda con quella di progresso sbandierata dalla modernizzazione. Un retaggio culturale al quale si è andata via via aggiungendo una fragilità strutturale, la mancanza di politiche consapevoli, un ministero spesso affidato a chi sembrava non aver meritato qualcosa di più interessante.
Eppure, buona parte delle eccellenze Made In Italy, più conosciute ed apprezzate nel mondo, viene dall’agroalimentare e proprio l’agroalimentare potrebbe rivelarsi la carta vincente per uscire dalla recessione. Ciò che manca è una visione ed una strategia di lungo ed ampio respiro. Dare credito all’agricoltura. Credito culturale e credito pratico. Che se, in Italia, di agricoltura si parla poco, di agricoltori se ne parla ancora meno. L’agricoltore del nostro tempo è un soggetto sociale e politico tutto nuovo che certo si rifà al passato ma che vuole agire consapevolmente in termini di accesso al mercato, all’acqua, alla terra, alle risorse energetiche. L’agricoltore consapevole non è più solo il produttore di materia prima, l’agricoltore consapevole si occupa anche di trasformare e commercializzare il proprio prodotto. Si tratta di una professionalità mirata, con percorsi formativi specializzati, necessari a creare sistemi d’azienda che siano sinonimo di alta qualità ed a basso impatto ambientale, efficienti e capaci di gestire attività integrate tra loro.
L’ Italia è e resta un paese agricolo. Lo Stato ha 338 mila ettari di terra, per lo più abbandonati, boschi incolti con i rischi di dissesto che abbiamo conosciuto in più di una tragica occasione. La perdita del suolo agricolo è un’urgenza alla quale si dovrebbe rispondere immediatamente, facilitandone l’affitto e la vendita. La valorizzazione del demanio statale è il primo passo da compiere per poter scommettere su questo settore dimenticato dalle istituzioni e spremuto dalla finanza. Gli agricoltori hanno sempre più difficoltà ad ottenere credito dal sistema bancario per finanziare le loro imprese, l’aumento dei costi fissi, i prezzi di vendita che si abbassano riducendo la redditività, con il risultato che le aziende agricole sono paralizzate e stentano ad avere i mezzi necessari per investire nel futuro. I costi elevati, le restrizioni di credito, gli iter burocratici lunghissimi, frenano anche quei giovani che vedono nell’agricoltura, fallita la promessa di felicità dell’ Italia industriale, una possibile scelta di vita. E non nel segno di uno spocchioso intellettualismo da “vivere verde”, piuttosto nel segno di una preparazione solida, con competenze ambientali, politiche ed economiche.
Aprire un’azienda agricola da zero è dispendiosissimo e la maggior parte dei giovani agricoltori sono figli di imprenditori agricoli che hanno lasciato loro in eredità l’azienda di famiglia. Se il salto imprenditoriale risulta difficile, ci sono comunque segnali positivi di ritorno a queste professioni. L’unico settore del nostro paese che cresce e crea nuovi posti di lavoro è quello agricolo, un comparto che si dimostra capace di assorbire anche molti disoccupati. Le imprese agricole in Italia sono 1,6 milioni ed il numero di operatori del settore arriva a rappresentare il 12% della forza lavoro. Il lavoro agricolo dipendente è raddoppiato da un anno all’altro, i primi tre mesi del 2013 si chiudono con una crescita degli occupati del 3,6%. Ciò che manca è sempre una visione ed una strategia di lungo ed ampio respiro. Una politica che regoli il lavoro agricolo, che combatta l’illegalità e lo sfruttamento della manodopera, istituire coordinamenti attivi per gestire il collocamento, e perchè non sia solo un ripiego stagionale, realizzare un piano di ammortizzamento degli oneri contributivi così che le aziende possano assumere i propri dipendenti con contratti di lavoro a lunga durata. Ciò che manca, infine, ha una connotazione profondamente culturale ed antropologica. Una politica che difenda l’agroalimentare dalle logiche finanziarie selvagge per garantire produzioni affidabili, che si opponga all’artificiosità dei sapori, che stimoli modelli economici virtuosi. Tipicità dunque, attraverso la quale l’agricoltura assicura ai consumatori prodotti genuini, del territorio, biodiversità, che riporta l’agricoltura in natura, e partecipazione attiva tra produttori e consumatori consapevoli, per sottrarre l’agricoltura alle speculazioni della finanza. Non più dunque il quanto ma il cosa ed il come.