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La Capanna di Eraclio di Codigoro

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  • Ristoranti tipici regionali
  • Specialità: n.d.
Ristorante non verificato

La Capanna di Eraclio di Codigoro: ecco cosa scrivono i nostri segnalatori

Sono passati ormai 55 anni da quando Mario Soldati solcò le onde del Po, poeta sulle tracce di una civiltà aggrappata al culto dei suoi totem gastronomici, dall’anguilla, eroico pesce dei Sargassi, all’aristocratica salama, zattere nell’infuriare dell’omologazione modernista. E 16 primavere da quando abbassò per l’ultima volta le serrande il Trigabolo di Argenta, fiore di campo della ristorazione italiana, sbocciato chissà come e chissà perché fra queste brume ronzanti di zanzare e squarciate dai lampi della rivoluzione cucinaria. Panta rei, chioserebbe mestamente il
gourmet di fronte al mormorare calmo e placido di acque meno cristalline di un tempo. Se non fosse che in questi gorghi continuano a naufragare i catecumeni della gola. Il canto delle sirene proviene nitido dalla Capanna di Eraclio, casupola bianca e spoglia che a dispetto della riconquistata stella Michelin, ostenta l’insegna molto minimal dell’“Osteria con Cucina”. E questa volta la rondine fa davvero primavera. Il bersò con il pergolato vitato del dehors, dai cui grappoli di uva fragola si estrae un mosto destinato ad addensarsi in sugolo; le galline americanine che
razzolano nel cortile fra i tavoli, onorate dalla psichedelia di pavoni vanesi; gli orologi a pendolo di legno che vigilano dall’alto su tutte le salette con il loro rassicurante tic tac; le tovaglie bordate di pizzi bianchi sui tavoli di legno massiccio e i pavimenti in travertino solcati da crepe che sposano le maree acquitrinose del terreno. E dietro le quinte i mobiletti e la cappa smaltati degli anni ’60 in dialogo serrato con le braci del camino, il legno dei pioppi abbattuti nei dintorni sposato ai sarmenti di vite e a qualche palatina dolce di carbone. Una porticina discreta immette in
una stanzetta privata, dove la signora Vanda, degna epigona delle Madri di Lione, monta la sua milionesima maionese con la pazienza ieratica di una pizia accasciata. La cucina di territorio va sempre presa con tutti i benefici d’inventario (e ricettario); ma in questo caso lo scetticismo è bene resti oltre il canale, prima della cortina di storia che protegge questo luogo meglio di una falange di zanzare affamate. Il merito va ai fondatori Luigin e Maria, edificatori di mura e spirito della casa sopra terreni testé strappati alla palude dalla bonifica fascista, pescatore e cacciatore
il primo, tuttofare dell’osteria (senza cucina, ma con alimentari e orchestrina) la seconda. E poi al figlio Eraclio e alla nuora Vanda, protagonisti del fortunato tuffo nella ristorazione. Pescatore
(di frodo) il primo, con le barche ormeggiate nel canale antistante, nonché cacciatore di lepri e di fagiani; poi compratore esperto del miglior pesce della zona all’asta pomeridiana di Goro. Abile cuoca la seconda, mantovana di natali ma rinata alla cucina nel laboratorio di una rosticceria bolognese, dove si sfornavano fino a 90 sfogli di tortellini al giorno. Furono i lavori per l’allaccio della linea elettrica ad accendere la miccia all’avventura, quando gli operai stanchi del pur ottimo salame della casa esortarono la coppia ad approntare pasti caldi. E da allora il take off ha puntato fisso sulla rotta della fedeltà intransigente. Oggi ai posti di comando siedono Maria Grazia Soncini e il fratello Pierluigi, rispettivamente in cucina e in cantina, coadiuvati da genitori autorevoli quanto performanti. Dopo qualche anno in cui si immaginava medichessa, è stata la nouvelle cuisine a riaccendere in Maria Grazia la passione per un mondo cui si  temeva predestinata. Il pullulare degli universi possibili di quella fibrillazione epocale ampliò la carta e la cantina senza perdere l’ammarraggio alla località. Largo agli antipasti, quindi, compresi i crudi di pesce. Qualche apertura ai prodotti alloctoni e affinamenti tecnici compiuti sulle riviste, accanto ai colleghi e nei congressi del settore. Nell’antro ipogeo si accatastavano intanto bottiglie importanti, oltre i soliti bianchi e rossi della casa. Nessun cedimento sui prodotti, però. Solo il miglior pesce dell’Alto Adriatico, più gentile di quello tirrenico, sapido e iodato, e le anguille argentate di Goro. Immutati anche i grandi classici di mamma e di papà: un tuffo nella microstoria che si incastra sonoramente negli snodi della civiltà italiana. La stagionalità (soprattutto fra le
nasse) è tutto. Ma immaginate di debuttare con i crudi, specialità della casa fin dal 1988, che siano gamberi,scampi, ombrine o il tonno pescato alla giapponese, cioè ucciso e subito dissanguato con un bel massaggio in navigazione. In accompagnamento riceverete pane di segale tostato della casa (come i grissini stirati) e burro salato, alla maniera francese, e per condimento due tipi di citronette discrete con un goccio di Balsamico e olio delicato. In alternativa la granseola alla di Vanda svela la parentela stretta fra questo lembo di Emilia e i cugini
oltre padani del Veneto, che dal Polesine hanno irraggiato una cucina del Delta del Po altrimenti non pervenuta da Ferrara. E ancora i Sapori di una passeggiata nel Delta del Po, ghiotta miscellanea di bocconi e cotture. Dalle moleche alle alghe fritte, dai gamberetti di laguna sgusciati alla bosaga, cefalo muggine alla griglia. Nel comparto primi le paste secche
griffate Mancini e Vicidomini fanno concorrenza a quelle fresche affidate ai polpastrelli esperti di Vanda. E il chilometro zero delle lenze cede al flirt con aromi e verdure forestieri, come i pomodorini del piennolo degli spaghetti alla chitarra con le canocchie e il broccolo romanesco delle linguine con calamarone e bottarga di muggine. I grandi classici però vi attendono al passo dei secondi piatti. Le grigliate innanzitutto, ancora affidate a mamma Vanda (7 euro l’etto con pescato del giorno; oppure l’anguilla in umad, scottata alla brace per indurire la pelle e trattenere i succhi all’interno, aromatizzata con aglio e rosmarino e poi passata in forno a cuocere nel suo stesso grasso, ricetta simbolo di Codigoro nella versione codificata da Luigin ed Eraclio, che attua un purissimo sottovuoto ante litteram. L’accompagnamento, a proposito di Veneto, è un letto di polenta bianca. E ancora il fritto misto dell’Alto Adriatico, capolavoro di leggerezza che non cede alla voga dell’extravergine, estraneo a un genius loci che privilegia la delicatezza e il rispetto. In stagione anche chicche come i caciaroli, totani medi cotti alla maniera dello shabu shabu, e le seppioline del redentore, quelle tipiche della laguna, appena unte d’olio, scottate intere sulla padella di ferro e servite con una crema di patate in omaggio a Massimiliano Alajmo. Più classico il comparto dolce, che al prezzo fisso di 8 euro offre zuppe inglesi e torte tradizionali al trancio, come la tenerina e la patona all’uva fragola. Nel bicchiere, con l’aiuto dell’ottimo Pierluigi, si può scegliere f ra un centinaio di etichette, per un decimo di matrice regionale. Il territorio impone il Fortana, in primis quello della vicina Corte Madonnina, nei pressi dell’Abbazia di Pomposa. Inappuntabile con l’anguilla e i fritti, rinfresca il palato aiutando a dissetarsi con gusto. Grandi formati sì, mezze bottiglie no. Anche i fiori all’occhiello possono essere stappati e serviti al bicchiere; mentre per il dopo pasto ci sono i distillati di Villa Zarri, come il brandy al toscano da assaporare fumando un sigaro della Capanna, in mezzo alle galline del cortile. 

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